UNZIONE DEGLI INFERMI…

la nostra guarigione dal male!

 

Dopo aver parlato del sacramento della confessione, sia nel suo significato che nel suo specifico, vorrei ora trattare il secondo sacramento dei “sacramenti di aiuto” al cammino cristiano e alla sua conversione: l’unzione degli infermi.

L’unzione degli infermi[1] è un sacramento che Dio ha donato alla sua Chiesa, come strumento di guarigione per il corpo e per l’anima del credente.

Argomentare su questo sacramento, significa inevitabilmente introdurre il significato e il mistero legati alla vita: la malattia, la sofferenza e la morte.

 

  1. Qual è il significato etimologico di questo sacramento?

Più che analizzare i termini “unzione” e “infermo”, come solitamente ho fatto per i vocaboli dei sacramenti fin d’ora trattati, vorrei dare uno sguardo alle realtà che sono ad essi collegate. Queste tre realtà, traducibili in tre semplici parole, sono: malattia, sofferenza e guarigione.

Il significato di questi tre termini sarà affrontato non secondo il concetto che ne dà oggi la scienza e la medicina, ma considerandone il significato biblico. Ovvero si cercherà di cogliere il significato della malattia, della sofferenza e della guarigione, a partire dall’essere vissute, queste realtà, nella fede e inserite nel piano salvifico di Dio.

Rileggendo i primi due capitoli del libro della Genesi, si scopre che tutta l’opera della creazione, da parte di Dio, era una cosa buona.

Una creazione opera del Signore, in cui l’essere umano era chiamato a gioirne, a trovare in essa la felicità e nella quale, di conseguenza, non poteva esserci posto per la malattia e per la sofferenza[2].

Contrariamente a questa iniziale visione della vita, nella quale non c’era posto per il dolore, l’uomo sperimenta, in seguito, più volte, in vari modi e situazioni, che la malattia e la sofferenza sono, invece, realtà presenti nella sua esistenza, che la condizionano e dalle quali egli non può sottrarsi.

Fin dall’inizio, l’uomo credente in Dio, dal giudeo prima e dal cristiano dopo, fa esperienza di questa contraddizione tra il progetto originale di Dio, in cui tutto era orientato alla vita e alla gioia, e la presenza minacciosa della malattia e del dolore, che possono condurre alla morte.

A questo punto nasce spontanea la domanda sulla causa della sofferenza e della malattia, nonché della morte.

Per il giudeo, non potendo far risalire la colpa a Dio e ad una contraddizione nel suo progetto creativo, giustifica tali realtà con la malvagità umana.

Questa giustificazione dell’esistenza della malattia, della sofferenza e della morte correlate alla malvagità umana, segna un passaggio cruciale nella fede israelitica, secondo cui, inizialmente, la sofferenza è considerata un’azione punitiva e correttiva da parte di Dio, come conseguenza delle colpe commesse da parte dell’uomo e quindi non più come l’effetto di un intervento divino.

Il capitolo terzo del libro della Genesi mostra, attraverso il racconto dell’inganno da parte del serpente, come la sofferenza e la morte sono entrate nella creazione, nel mondo creato, per effetto del peccato dell’uomo che disobbedisce a Dio e segue il consiglio del male.

La connessione tra malattia e colpa, seppur giustificata da diversi brani dell’Antico Testamento[3], costituisce tuttavia una risposta parziale. Basta ricordare l’esperienza di Giobbe, uomo fedele alla legge di Dio, che sperimenta il dolore della malattia e la morte dei suoi cari.

Se non vi può essere una piena connessione tra malattia e colpa-peccato, come si può, allora, giustificare e intendere la sofferenza da parte dell’uomo giusto?

Nasce una seconda domanda: perché a volte i giusti sono colpiti da malattia, sofferenza e morte, mentre i malvagi stanno bene?

Secondo il teologo Samuangala Raymond Mkindji, la sofferenza nel giusto può essere intesa come: “elemento di maturazione dei massimi valori dell’uomo, che sono la comunione e l’amore di Dio”[4] ovvero, come ci mostra sempre il libro di Giobbe, un’apertura del cuore e della mente ad una concezione diversa di Dio. Un Dio “diverso” dagli schemi umani, in cui all’essere umano “non resta che il totale auto-affidamento a lui. Dovrà fidarsi di Dio, lasciare che egli abbia le sue vie e che queste vie siano ben altre da quelle degli uomini… c’è già nel libro di Giobbe una premessa della fede nella risurrezione”[5].

Questo atteggiamento di auto-affidamento apre all’Israelita la vita ad una “retribuzione escatologica” ovvero: l’ultima parola non sarà la sofferenza e la morte ma qualcosa di nuovo e di inedito che dovrà accadere, e che solo nella fede in Yhwh il credente può vivere, sperimentare e sperare.

A questa apertura fiduciosa nelle vie diverse di Dio, si aggiunge un altro elemento della fede importante nella concezione della malattia e della sofferenza, che Israele traduce nelle parole bibliche del profeta Abacuc:

Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti,
a te alzerò il grido: «Violenza!» e non soccorri?

Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?
Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. Il Signore rispose e mi disse:
«Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette
perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà». Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto,
mentre il giusto vivrà per la sua fede
” (Abacuc 1, 2-3; 2, 2-4).

Dio promette, secondo il profeta Abacuc, una fine del dolore e della morte, ovvero fa intravvedere “uno spazio di esistenza che vada oltre l’esperienza attuale, una vita diversa da quella presente e nascosta, ma reale e piena, nella quale all’innocente verrà resa giustizia e lo scandalo dell’impunità dell’empio sarà totalmente abolito. La morte quindi deve concludersi in una risurrezione di vita per i giusti e di morte definitiva per i malvagi”[6].

Quanto sino ad ora analizzato sulla malattia e sulla sofferenza, dal dato biblico si considera che la salvezza e il premio sono solamente per il giusto sofferente. 

A questo punto sorge una terza domanda: la sofferenza del giusto poteva essere concepita anche come intercessione di salvezza e redenzione per il malvagio sofferente?

Esitono diversi passi biblici che mostrano la visione e il significato della sofferenza a beneficio di tutti.

Nella storia della liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto, Mosè intercede presso Dio e offre la sua vita per la libertà[7] dei suoi connazionali.

Nel profeta Geremia, il quale parla del giusto che paga per i peccatori[8], fino alla visione del profeta Isaia che, nei capitoli 52 e 53 del suo libro, parla del Servo sofferente, è testimoniata questa idea del giusto che intercede, con la sua sofferenza, alla salvezza di tutti anche dei malvagi.

In questa nuova concezione e significato della malattia e della sofferenza si ha un passaggio determinante:  la sofferenza diventa, da segno di peccato, a segno di grazia e di salvezza, sia per il sofferente giusto che per il malvagio.

Infine sarà Gesù Cristo, Figlio di Dio, attraverso la sua sofferenza e il dono della sua vita sulla croce, a portare a compimento ed a realizzare una volta e per sempre la salvezza dell’umanità, caricando sulle proprie  spalle il peccato e la sofferenza del mondo intero, passata, presente e futura.

Sono state poste diverse domande sulla malattia e sulla sofferenza: origine, conseguenze e significato, ma la domanda fondamentale “che la Bibbia si pone riguarda tuttavia il come la malattia deve essere vissuta, le sue possibilità e i suoi esiti… raggiungibili soltanto creando un rapporto intenso con il Cristo risorto”[9].

Quando si parla di malattia, di sofferenza e, conseguentemente, di guarigione, credo sia importante tener presente un altro concetto fondamentale, che fa da perno a tutto l’impianto del nostro discorso:  il concetto di “persona”.

A mio avviso, quando si affronta il tema della malattia, della sofferenza e della morte, non possiamo scindere la ricerca e lo studio dei concetti e delle realtà che essi rappresentano dall’idea che si ha della “persona”.

Chi è la persona?

Che cosa vuol dire “persona”?

Che cosa si indica con il termine “persona”?

Quali sono i diritti e i doveri che scaturiscono da questo concetto? Quali sono le leggi, sia morali/spirituali che civili e legislative ad esso legate?

Il termine “persona”, deriva dal latino persōna persōnam, derivato probabilmente dall’etrusco φersu, indi φersuna, che nelle iscrizioni tombali riportate in questa lingua indica “personaggi mascherati”. Tale termine etrusco sarebbe ritenuto un adattamento del greco πρόσωπον (prósōpon) che indica il volto dell’individuo.

Da un punto di vista morale – afferma il teologo I. Sanna:

« persona corrisponde alle caratteristiche peculiari di un individuo razionale e libero, alle doti innate e acquisite che si manifestano in uno stile di vita o in una promozione di determinati valori. – Continua – in senso fisico, persona corrisponde all’organismo vivente dell’essere umano, in quanto fenomeno che manifesta la persona morale. Nella cultura laica contemporanea si discute sul momento preciso della vita umana, a cominciare dal quale si può parlare di persona umana. – Infine- in senso giuridico, persona indica il soggetto di diritti e doveri stabiliti dalla legge »[10].

Inizialmente la teologia cristiana usava il termine “persona” per parlare del mistero della Trinità e per combattere le controversie e le eresie del IV e V secolo. Si parlava della Trinità come di tre persone distinte, ovviamente non in modo esaustivo.

Sarà sant’Agostino, il quale, nel parlare della Trinità, si riferisce anche all’uomo e precisamente al suo mondo interiore.  Comincerà a parlare dell’uomo a partire dalla sua interiorità, formulando il concetto di coscienza-di-sé, cioé l’autocoscienza, in tutta la sua radicalità.

Egli ha colto l’autocoscienza quale atto originario, presupposto di ogni possibile conoscere e volere, e quindi, di ogni attività dell’anima[11].

Successivamente, il filosofo romano Boezio, nell’aprire la stagione teologica medievale, definisce la persona: sostanza individuale di natura razionale.

Con Boezio vi è un passo in avanti enorme, perché dell’uomo si intende l’essere e la sua natura: sostanza e ragione. Ma della persona ancora non si parla e non si pone in evidenza il concetto di corporeità e di relazionalità; a questi concetti si arriverà nel novecento con Maritain e Mounier, filosofi francesi.

A sua volta Cartesio parla di persona distinguendo l’essere umano in res cogitans e res extensa, di cui solo la prima è persona.

Fino al Concilio Vaticano II, la teologia aveva, nel passato, posto l’accento maggiormente sull’anima e poco o nulla sul corpo. Sarà il documento conciliare Gaudium et Spes (GS) a valorizzare la dimensione corporale dell’individuo umano. Al numero 14 del documento si legge:

« Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale… Allora non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno »[12].

Fin dall’inizio, la GS sottolinea, dell’uomo, l’unitarietà dell’anima e del corpo: l’uno non esclude l’altro. L’uomo è totalità di anima e di corpo.

Quando si afferma che l’essere umano è una unità di anima, principio vitale, e di corpo, a tale proposito scrive san Giovanni Paolo II:

« L’anima presa in se stessa, non è dunque l’uomo? No, ma essa è l’anima dell’uomo. Dunque il corpo è l’uomo? No, ma si deve dire ch’esso è il corpo dell’uomo. Perciò dunque né l’anima né il corpo, presi separatamente, sono l’uomo: quello che si chiama con questo nome è ciò che nasce dalla loro unione »[13].

Affermare ciò, significa che mai possiamo prescindere da questo binomio e da questa complementarietà. Non possiamo considerare o solo l’anima o solo il corpo. Quando parliamo dell’essere umano o di “persona” parliamo sempre di questa unità: dobbiamo sempre tener presente questa duplice dimensione.

Anche se la persona va dal medico per farsi curare il corpo, non può costui prendere in considerazione solo questa dimensione, perché l’uomo è un tutt’uno e lo sarà per sempre fino alla morte.

Certamente il medico sarà chiamato, prioritariamente, ad analizzare, ad osservare ed infine ad intervenire sullo specifico del corpo ammalato, ma chi riceve il suo operato è persona, è unità di corpo e anima.

Questa differenza di pensiero deve porre ciascuno in un atteggiamento diverso di fronte all’altro.

L’altro, prima di essere ammalato, è persona con una storia e con un vissuto suo, che lo identifica.

Inoltre, se l’altro è una unità singolare e irripetibile, allora lo stare o il porsi di fronte alla persona ammalata è sempre diverso e specifico, perché diverse sono le persone ammalate che si presentano.

Ciò vale anche nell’altro senso. Quando, per esempio, una persona si presenta ad un sacerdote per delle ragioni spirituali, quest’ultimo deve tener in considerazione la dimensione corporale, psichica ed anche socio-culturale del penitente.

Di più: chi è l’essere umano? Che cos’è questa unità di anima e corpo?

L’essere umano è un soggetto creato da Dio, a sua immagine e somiglianza[14], in corpo e anima, in cui Dio ha posto il suo respiro: un alito di vita (Pro 20,27). Egli,  l’uomo, è un soggetto creato da Dio. Un Tu creato, chiamato per nome.

 Dio « crea un tu, ponendolo davanti a sé come essere responsabile, un essere, cioè, che può rispondere, un soggetto partner del dialogo inter-personale »[15].

Dio, essere trinitario, vale a dire essere che è in co-relazione , ha creato l’uomo come essere relazionale con se stesso e con gli altri.

Dell’uomo, il fatto di essere relazionale  non è solo un dato di partenza, ma anche un dato di arrivo. L’essere relazionale diventa vocazione, cioè cammino, compito da realizzare nella propria vita per il raggiungimento della propria felicità. Un cammino, quello dell’uomo, da percorrere nella libertà e nella fede.

Infine, lo specifico umano: « chi è l’uomo? », trova il suo pieno significato in quanto afferma il documento conciliare Gaudium et Spes:

« In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Cristo, … proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione »[16].

Per l’antropologia cristiana, non basta che l’uomo e la donna siano creati da Dio, ma occorre che questi siano inseriti in Cristo perché è solo Lui che svela l’uomo all’uomo. È in Cristo che viene rivelato il senso ultimo della vita dell’essere umano. L’essere umano, creato ad immagine di Dio, è chiamato in Cristo ad entrare in quel dialogo trinitario: al Padre, in Cristo, per mezzo dello Spirito Santo.

Da questa concezione cristiana sull’essere umano, creato ad immagine di Dio, inserito in Cristo, scaturiscono quelli che sono i caratteri essenziali della persona umana: la sussistenza e l’autotrascendenza[17].

In ordine alla prima, l’uomo è un essere unico e irripetibile; un io capace di autocomprendersi, di autopossedersi e di autodeterminarsi.

Afferma il teologo Sanna che:

« non sono propriamente l’intelligenza, la coscienza e la libertà a definire la persona, ma è la persona che, in quanto essere sussistente, sta alla base degli atti di intelligenza, di coscienza, di libertà. Tali atti possono anche mancare, senza per questo, però, l’essere umano cessi di essere persona »[18].

In ordine all’autotrascendenza, l’uomo è aperto all’infinito, verso Dio, perché con la sua intelligenza e volontà, si eleva al di sopra di se stesso e di tutto il creato.

L’uomo tende alla verità totale e verso il bene assoluto; ma nello stesso tempo è un essere che tende verso l’altro, verso i fratelli ed il creato, il mondo. La persona umana quindi è un « essere in sé » (autosussitenza) e un « essere per l’altro » cioè un essere relazionale (autotrascendenza)[19].

Nel Catechismo della Chiesa a questo proposito si afferma ancora:

« Ogni persona umana, creata ad immagine di Dio, ha il diritto naturale di essere riconosciuta come un essere libero e responsabile. Tutti hanno verso ciascuno il dovere di questo rispetto »[20].

Fin ad ora abbiamo parlato del concetto di persona come unità di anima e di corpo. A questo punto possiamo chiederci: che cos’è l’anima e che cosa è il corpo?

2.1) Che cos’è l’anima?

Quando si parla di cuore, nel nostro attuale lessico s’intende la vita affettiva e di amore. Nell’ambiente giudaico con la parola « cuore » s’intende l’interno dell’uomo, che comprende oltre alla vita affettiva e sentimentale, anche i ricordi, le idee ed i progetti. Per la Bibbia il cuore è il luogo dove l’uomo dialoga con se stesso[21]. Il cuore è il centro del suo essere persona, fonte della sua personalità cosciente, libera e intelligente; luogo in cui l’uomo prende le sue decisioni definitive; luogo in cui l’uomo si ritrova a tu per tu con Dio.

« Il cuore dice la totalità della persona umana a differenza delle facoltà o dei singoli momenti »[22].

2.2) Che cos’ è il corpo?

Nel corso dei secoli, il corpo è stato oggetto di tante discussioni e posizioni diverse, anche in campo cattolico. Basta pensare a questo riguardo il passaggio dalla teologia del medio-evo (il corpo prigione dell’anima) alla teologia contemporranea, secondo il Concilio Vaticano II (il corpo luogo d’incarnazione).

Le domande che cosa è il corpo e che cosa esso comunica, restano domande, a mio avviso, sempre aperte.

Corpo significa qualsiasi oggetto percepibile con il tatto e con la vista. Se parliamo di corpo umano, la definizione  data poc’anzi non è sufficiente. Quando parliamo di corpo umano bisogna affermare che esso, prima di essere un “oggetto”, è “soggetto”, un soggetto anche di altri sensi, passioni e azioni.

Il corpo umano, come affermava il card. Martini, si trova a vivere quella che possiamo chiamare:

« avventura del nascere e del morire, del crescere e del decadere, del mangiare, dell’incontrare, dell’amare. La mia storia, i miei pensieri, le mie gioie e i miei dolori, le mie speranze e le mie attese, le mie delusioni, le mie vittorie e le mie ferite… sono tutte iscritte nella mia carne »[23].

Detto questo, potrebbe venire la tentazione di affermare che io sono il mio corpo, invece bisogna dire che « io ho un corpo ». Il corpo è parte essenziale della mia vita o della mia persona, che la definisce, senza però esaurirla.

Il corpo definisce la mia persona, cioè esso, sosteneva sempre il cardinale Martini:

« mi colloca in uno spazio e in un tempo, mi separa dagli altri e mi unisce, si muove e si arresta, è attratto e respinto, accende e spegne il pensiero »[24].

Il corpo vive di una certa coincidentia oppositorum[25]. Esso fa tutto ma non è il tutto, è uno ma ha bisogno di tutti.

Il corpo, per quanto si pone in opposizione allo spirito, non esiste se non in legame con lo spirito: è lo spirito che dà vita al corpo, che fa essere il corpo ciò che deve essere e cioè oggetto vivo e in relazione.

Se facciamo un passo indietro nella storia, ecco quanto hanno affermato alcuni filosofi sul corpo.

  • Per « Socrate la morte non è altro che la separazione dell’anima dal corpo; l’anima esisterebbe da sola e sarebbe anzi bene che fin da subito si tenesse il più lontano possibile dal corpo (Fedone 64a).
  • Platone, dal canto suo, ritiene che l’anima trovi unità al corpo accidentalmente. Pensa che il corpo (in greco soma) sia la tomba (in greco sema) dell’anima, la prigione da cui uscire. In attesa della liberazione definitiva, l’anima deve sottomettere il corpo e governarlo per compiere il suo cammino di ascesa .
  • Epicuro, diceva che « l’anima è spiegabile in modo meccanico, come moto del corpo: il corpo e i suoi moti sono santi (Epicuro, fr. 130.414). Comunque, questa concezioni, con le successive spiegazioni e variazioni, stanno, secondo Martini, alla base della nostra comprensione occidentale dell’uomo »[26].

In passato vi era una concezione, in alcuni ambienti ancora presente, dualistica del corpo opposto all’anima. Già nel Medio-Evo si definiva il corpo la prigione dell’anima e si affermava che il corpo andava trattato come il somaro, cioè senza valore proprio.

Oggi, grazie al cammino storico ed ecclesiale, non si parte più da questa visione dualistica, di opposizione tra corpo e anima, ma olistica, cioé che la persona è l’unità del corpo e dell’anima: un tutt’uno.

Nella Sacra Scrittura, nel libro della Genesi, viene detto che:

« Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente » (Gen 2,7). L’uomo è creato con polvere dalla terra e di soffio vitale, che non possono essere separati perché lo spirito ha bisogno del corpo per esprimersi e il corpo dello spirito per vivere. Con la nascita di Gesù, con il Mistero dell’Incarnazione, il corpo assume il suo più alto valore e riconoscimento. Esso, il corpo, diviene luogo della manifestazione di Dio; l’incontro tra Dio e l’uomo. Il Signore Gesù ha preso un corpo umano per incontrare l’uomo. Il Signore -afferma il cardinale Martini- « ha preso un corpo per essere con me e come me, per unirsi e darsi a me, per mostrarmi nel tempo il suo amore eterno, per insegnarmi a vivere questo mio corpo come dono di amore »[27]. La religione cristiana a partire dal corpo assunto dal Signore, dal Verbo fatto carne, può definirsi la religione del corpo, la fede del corpo ovver del Logos fatto carne[28].

Capiamo, da quanto detto, che il corpo tout-court ha un’ importanza fondamentale per la fede cristiana. Se neghiamo la dimensione corporale nella fede cristiana, togliamo uno dei dati fondamentali della teologia: l’Incarnazione ( Dio si è fatto uomo)[29].

Scrive a riguardo san Giovanni Paolo II:

« L’etica cristiana considera con ammirazione e alta stima il corpo umano. “Ciascuno – dice Paolo – sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto… La Chiesa non può non incoraggiare tutto ciò che serve alla sviluppo armonioso del corpo umano, giustamente considerato il capolavoro di tutta la creazione, non solo per la sua proporzione, vigore e bellezza, ma anche e soprattutto perché Dio ne ha fatto l’abitazione e lo strumento di un’anima mortale, infondendogli quel “soffio di vita” per cui l’uomo è fatto a sua immagine e somiglianza. Se poi si considera l’aspetto soprannaturale, sono di illuminante monito le parole di San Paolo: ” Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo… Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio?… Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” »[30].

Il corpo, in quanto tale, è, come ben sappiamo, soggetto talvolta ad attacchi esterni o interni che gli procurano uno stato diverso che chiamiamo malattia.

2.3) Che cos’è la malattia?

Nel dizionario di teologia biblica, ho trovato scritto:

« Nell’oriente antico si considerava la malattia come un flagello causato da spiriti malefici… Per ottenere la guarigione si praticavano esorcismi destinati a scacciare i demoni, e si implorava il perdono degli dèi mediante suppliche e sacrifici. Perciò la medicina dipendeva soprattutto dai sacerdoti; per una parte rimaneva vicina alla magia. Bisognerà attendere lo spirito osservatore dei Greci per vederla svilupparsi in modo autonomo come scienza positiva. Partendo da questo stato di cose, la rivelazione biblica lascia da parte l’aspetto scientifico del problema; considera esclusivamente il significato religioso della malattia e della guarigione nel disegno di salvezza[31].

Nel catechismo della Chiesa si legge:

 « La malattia e la sofferenza sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia l’uomo fa l’esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. Ogni malattia può farci intravvedere la morte »[32]. Ancora, « la malattia può condurre all’angoscia, al ripiegamento su di sé, talvolta perfino alla disperazione e alla ribellione contro Dio. Ma essa può anche rendere la persona più matura, aiutarla a discernere nella propria vita ciò che non è essenziale per volgersi verso ciò che lo è. Molto spesso la malattia provoca una ricerca di Dio, un ritorno a lui »[33]. La malattia può diventare un « cammino di conversione »[34].

Enzo Bianchi[35] afferma che la malattia:

« è essenzialmente una realtà in cui l’ammalato è chiamato ad ascoltare nuovamente, a rileggere la sua condizione e la storia stessa. È un’ottica nuova da cui guardare la realtà. La malattia « svela » la realtà, nel senso che la denuda, la spoglia da tutti gli abbellimenti… Nella malattia l’uomo è chiamato alla responsabilità di « dotare di senso » la propria sofferenza »[36].

Di fronte alla domanda sul senso della malattia e sulle  prospettive future: perché? Perché proprio a me? Che cosa mi accadrà ?, è chiaro che né il malato né l’accompagnatore medico hanno delle risposte certe, ma entrambi sono chiamati a camminare insieme per dare un significato a tali quesiti.

La malattia è uno spazio d’incontro di persone, nel quale entrambe sono chiamate a dare senso: l’ammalato prima e il medico dopo. È un incontro, questo, che aiuta entrambi a ricercare la via del senso, prima della via risolutiva.

A tal proposito diceva papa Giovanni Paolo II:

« Ogni cura comporta, infatti, di per sé, una reciprocità e richiede rapporti autenticamenti umani. Da una parte, l’atto con cui il malato si affida a voi contiene in se stesso più o meno esplicitamente il riconoscimento della vostra competenza e perizia, l’assenso alla vostra opera, la fiducia nella vostra discrezione e responsabiltià. Dall’altra, voi stessi avete bisogno di capire il malato in tutto il suo vissuto per offrirgli un’assistenza personalizzata. Occorre, dunque, che s’instauri un legame tra la sfera psico-affettiva del sofferente e il vostro mondo interiore di uomini, prima ancora che di professionisti. Il rapporto malato-medico deve, perciò, diventare sempre di più « un autentico incontro tra due uomini liberi… tra una « fiducia » e una « coscienza »[37].

 Leggo questa testimonianza fatta da una fisioterapista di 40 anni:

« Personalmente cerco di portare oltre alla mia professionalità anche tanto amore e gioia. Essi – i malati – si affidano completamente a me come se cercassero oltre la guarigione anche sicurezza materna…. Essi sono di qualsiasi età.

A volte credo che Dio mi abbia donato questo amore per la mia professione perché ha visto in me che posso donare a queste persone amore e felicità; soprattutto aiutarli a non perdere in loro l’amore verso Dio.

Nei momenti di maggior sconforto, non faccio altro che ricordare loro che quando Dio sembra così lontano è invece così vicino e li rassicuro raccontandogli i versi della poesia “orme sulla sabbia”, dell’Anonimo brasiliano ».

La malattia spesso viene considerata solo da un punto di vista negativo e di sofferenza, eppure afferma san Giovanni Paolo II:

« attraverso i secoli e le generazioni è stato costatato che nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia. Questa scoperta è una particolare conferma della grandezza spirituale che nell’uomo supera il corpo in modo del tutto incomparabile. Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l’uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali…»[38].

Questa scoperta della malattia di cui parla il pontefice, può essere colta dalla persona malata solo se è aiutata e il suo grido , che trova il suo culmine nel grido del Maestro sulla croce: « Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?»[39] viene ascoltato.

È lì che l’uomo può scoprire « il valore nuovo – afferma Chiara Lubich[40] – del dolore… la chiamata – vorrei dire – a questa che, fra le vocazioni di ogni giorno, d’ogni ora della nostra vita, è la più alta… Noi, nel lavoro, nei successi, siamo tentati alla volte di vedere nelle persone che soffrono casi marginali da curare, da visitare e, possibilmente, da aiutare a guarire presto perché tornino all’attività, quasi che quella sia il centro del nostro dover essere. E invece no: quelli che fra noi soffrono, giacciono ammalati, muoiono, e tutto offrono per Dio, sono gli eletti. Essi stanno al culmine della gerarchia dell’amore»[41].

Dopo questo lungo excursus sul significato del termine “persona”, che di conseguenza implica anche il concetto di corpo, anima e malattia,  prima di passare alla seconda domanda, che riguarda il fondamento biblico del sacramento dell’unzione degli infermi, vorrei aggiungere un’ulteriore parola per spiegare le due definizioni con cui veniva e viene oggi chiamato tale sacramento.

Il sacramento dell’unzione degli infermi, fino all’VIII secolo era amministrato per qualsiasi malattia e per restituire la salute. Tra coloro che potevano ricevere l’unzione vi erano non solo gli ammalati, ma anche “cristiani infermi o handicappati: sordi, muti, ciechi, e anche indemoniati”[42]. Verso la fine di questo periodo si comincia a considerare anche l’effetto spirituale del sacramento: la remissione dei peccati.

Nel Medio-Evo il sacramento subisce un forte cambiamento.

A motivo che esso apporta sia la guarigione fisica che quella spirituale, con la remissione dei peccati, ed essendo possibile avvicinarsi al perdono dei peccati una sola volta nella vita, i cristiani riservavano questa possibilità alla fine dell’esistenza. L’unzione e la penitenza (confessione) vengono cosi associate e conferite in extremis, sul punto di morte.

Questo passaggio del conferimento dell’unzione per la guarigione fisica a viatico determinò il cambiamento del nome del sacramento: da unzione degli infermi ad estrema unzione.

Da quel momento in poi il sacramento veniva dato dalla Chiesa ai moribondi.

I ministri del sacramento erano i ministri sacri e non più i cristiani, come avveniva in precedenza prima del Concilio di Firenze del 1439 d.C.

Dal Concilio di Trento (1545-1563) il sacramento ritorna ad essere conferito non solo ai moribondi ma anche ai malati, “specialmente quelli cosi gravi da sembrare in fin di vita”[43].

 Sarà infine il Concilio Vaticano (1962-1965) a recuperare il nome di “unzione degli infermi”, segnando anche la distinzione tra il conferimento del sacramento dal viatico dato in punto di morte.

Nalla Sacrosanctum Concilium al num. 73 si legge:

L’«estrema unzione», che può essere chiamata anche, e meglio, « unzione degli infermi », non è il sacramento di coloro soltanto che sono in fin di vita. Perciò il tempo opportuno per riceverlo ha certamente già inizio quando il fedele, per indebolimento fisico o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte.

È da notare che l’espressione finale “essere in pericolo di morte”, allarga l’interpretazione dei destinatari di questo sacramento. Le persone in fin di vita:  non solo unicamente gli ammalati e gli anziani, ma anche coloro che hanno subito un grave incidente e coloro che stanno per affrontare un intervento chirurgico che potrebbe compromettere la vita[44].

Il numero 73 del documento conciliare apre la via ad una nuova pastorale del sacramento, in cui i fedeli sono invitati a chiedere il sacramento non solo in punto di morte, ma ogni volta che la vita fisica è in pericolo.

Ci sono cristiani che spesso non chiedono l’unzione degli infermi perché questo sacramento richiama o conferma la morte ormai imminente… quasi si ha paura di essere unti e, molte volte (purtroppo!) tanti preferiscono ricorrere a maghi e santoni. Secondo le statistiche, pubblicate su alcuni quotidiani: ogni giorno 30mila italiani (ogni anno 15 milioni di italiani) si rivolgono ai maghi[45].

Occorre che la Chiesa  promuova sempre di più una pastorale che aiuti i cristiani a riscoprire il valore del sacramento dell’unzione degli infermi e nello stesso tempo “potenziare e rendere ordinarie le cosidette perghiere di guarigione[46] o preghiere di conforto dei malati, vera espressione della costante premura della Chiesa nel vivere, insieme ai fedeli malati, ogni malattia, senza aspettare situazioni di gravità”[47].

 

  1. Qual’è il fondamento biblico dell’unzione degli infermi? Ovvero quali sono i passi di riferimento della Sacra Scrittura?

 Nel vangelo non troviamo testimonianze in cui Gesù pratica l’unzione con l’olio. Solo Marco, nel suo vangelo, testimonia che erano gli apostoli, durante la vita terrena del maestro, a farlo. Difatti al versetto 13 del sesto capitolo si legge:

Scacciavano molti demòni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6, 13).

Afferma il teologo Samuangala che:

“questa azione terapeutica degli apostoli viene presentata come una delle dimensioni constitutive della missione affidata da Gesù agli apostoli: “Allora chiamò i dodici e cominciò a mandarli a due a due, e dava loro il potere sopra gli spiriti impuri. (Mc 6,7; cf. anche Mt 10, 1.8; e Lc9, 1-2)”[48].

Questa affermazione evidenzia una continuazione da parte degli apostoli, e anche della Chiesa primitiva, dell’interesse e della condotta di Gesù verso le persone ammalate; atteggiamento e pratica che saranno tramandati e portati avanti dalla Chiesa lungo i secoli.

Il testo di san Giacomo che promulga e richiama una prassi ormai consolidata nella missione sia degli Apostoli che della Chiesa primitiva: è il brano fondante dell’unzione degli infermi, che leggo:

Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi. Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati” (Gc5, 13-15).

Da questo breve testo di tre versetti, si possono evidenziare le seguenti indicazioni nella prassi e nell’amministrazione del sacramento:

  • I destinatari.

 Sono le persone ammalate, senza specificare il tipo di gravità, ma che sicuramente si tratta di ammalati impossibilitati a muoversi, perchè il versetto 14 prosegue: chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui”.

  • I ministri.

Sono gli anziani, non nel senso dell’età ma della funzione che questi svolgevano. La definizione “anziano” veniva attribuita ai presbiteri ovvero a membri della gerarchia: “coloro che lo Spirito Santo ha costituito vescovi per pascere la Chiesa del Signore” (At 20, 28; cf. 20,17)[49], e dai loro collaboratori: i sacerdoti.

  • Gli elementi costitutivi.

Sono la preghiera e l’unzione.

L’unzione non ha in sé nulla di magico, ma praticata insieme con la preghiera e nel nome di Gesù produce i suoi effetti di guarigione.

 

  1. Come si celebra il sacramento dell’unzione degli infermi? E, quindi, quali sono i simboli che lo caratterizzano?

Il sacramento dell’unzione degli infermi, che può essere anche definito “sacramento del sollievo” in quanto reca sollievo, si amministra con l’olio sacro, benedetto dal Vescovo il giovedi santo, durante la settimana santa.

L’olio impiegato per l’unzione deve essere olio di oliva[50], secondo quanto deciso dal Concilio di Firenze del 1439.

Il ministro sacro, colui che, solo, può amministrare il sacramento, unge la fronte e le mani della persona inferma[51], recitando le seguenti parole secondo la costituzione apostolica di Paolo VI:

“Per questa santa unzione e la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo. E, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi” [52].

Papa Paolo VI inoltre, ammette che l’ammalato possa ricevere l’unzione una seconda volta: non soltanto se egli ricade nella stessa malattia dopo un periodo di convalescenza, ma anche nel caso in cui vi sia un peggioramento nel corso della stessa malattia[53].

Il Catechesimo cattolico non soltanto riprende quanto la Chiesa ha dichiarato precedentemente con i Concili e con i documenti papali, ma afferma inoltre che:

Come tutti i sacramenti, l’Unzione degli infermi è una celebrazione liturgica e comunitaria, sia che abbia luogo in famiglia, all’ospedale o in chiesa, per un solo malato o per un gruppo di infermi. È molto opportuno che sia celebrata durante l’Eucaristia, memoriale della pasqua del Signore. Se le circostanze lo consigliano, la celebrazione del sacramento può essere preceduta dal sacramento della Penitenza e seguita da quello dell’Eucaristia. In quanto sacramento della pasqua di Cristo, l’Eucaristia dovrebbe sempre essere l’ultimo sacramento del pellegrinaggio terreno, il « viatico » per il «passaggio» alla vita eterna[54].

  

  1. Qual è il valore spirituale di questo sacramento?

Che cosa esso produce nella vita del fedele?

Quali sono gli effetti e i frutti che lo Spirito Santo elargisce nel cuore del credente ogni volta che riceve questo sacramento?

 Nel contesto dei vangeli la guarigione non ha solo un valore fisico-biologico, ma soprattutto spirituale. Essa fa parte dei segni messianici che Gesù opera per manifestare il Regno di Dio e la sua misericordia.

La cura e i miracoli sono, nel Nuovo Testamento, il segno dell’attenzione e dell’amore che Dio rivolge agli indifesi, a coloro che si trovao in difficoltà; nello stesso tempo essi rivelano l’identità di Gesù Cristo:

Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?» In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella»” (Lc 7,20-22).

Inoltre, il professor Samuangala afferma che la guarigione:

 “fa parte della buona novella della salvezza. Essa significa che Dio, in Gesù, libera l’uomo dalla sua condizione peccatrice e da tutti i mali che essa comporta, di cui la malattia è un’espressione. È in questa prospettiva che vanno intese le guarigioni ottenute con olio. Esse manifestano la liberazione da un male più profondo che intacca l’uomo: il peccato”[55].

Infine, l’unzione produce nell’infermo degli effetti, che possiamo definire “doni divini” e sono:

  • Un dono particolare dello Spirito Santo.

La grazia fondamentale di questo sacramento è una grazia di conforto, di pace e di coraggio per superare le difficoltà proprie dello stato di malattia grave o della fragilità della vecchiaia. Questa grazia è un dono dello Spirito Santo che rinnova la fiducia e la fede in Dio e fortifica contro le tentazioni del maligno, cioè contro la tentazione di scoraggiamento e di angoscia di fronte alla morte (CCC1520).

Si riceve la forza divina affinché aiuti l’infermo ad assumere con pazienza la malattia e a viverla con serenità, proprio nel momento in cui le forze vengono meno sia a causa dell’età avanzata sia a causa di una malattia grave. 

  • L’unione alla passione di Cristo.

Per la grazia di questo sacramento il malato riceve la forza e il dono di unirsi più intimamente alla passione di Cristo (CCC1521).

Attraverso la malattia e la sofferenza, l’anima si apre all’incontro con Colui che santa Teresina del Bambin-Gesù chiama “lo Sposo dell’anima”.

Cresce l’unione tra Dio e l’uomo.

La malattia, la sofferenza… ogni dolore si presenta alla persona credente sempre come un bivio, una doppia scelta: intraprendere la via in cui la sofferenza umana è un’incidente, una dis-grazia, qualcosa che improvvisamente è venuto a distrugge un equilibrio e un’armonia nella vita (come tanti e tanti nostri fratelli e sorelle purtroppo credono e si lasciano cosi consumare nella disperazione e tristezza da quel dolore) oppure scegliere il sentiero verso un’unità più profonda con il Cristo della croce e della risurrezione?

Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, presenta la sofferenza come la possibilità e nello stesso tempo la grazia che il cristiano riceve di incontrare e abbracciare Gesù Cristo Crocifisso e Abbandonato come atto supremo della fede e dell’amore verso Dio, da cui scaturisce la risurrezione e cresce l’identificazione con il Signore[56].

San Paolo ci ricorda che “quando sono debole è allora che sono forte” (2 Cor 12,10). 

  • Una grazia ecclesiale.

I malati che ricevono questo sacramento, unendosi « spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo », contribuiscono « al bene del popolo di Dio »… e l’infermo… contribuisce alla santificazione della Chiesa e al bene di tutti gli uomini (CCC1522). 

  • Remissione o liberazione dal peccato.

Il perdono dei peccati, se il malato non ha potuto ottenerlo con il sacramento della Penitenza. 

  • Preparazione all’ultimo passaggio.

Se il sacramento dell’Unzione degli infermi è conferito a tutti coloro che soffrono di malattie e di infermità gravi, a maggior ragione è dato a coloro che stanno per uscire da questa vita (« in exitu vitae constituti »), 134 per cui lo si è anche chiamato « sacramentum exeuntium ».

L’Unzione degli infermi porta a compimento la nostra conformazione alla morte e alla risurrezione di Cristo, iniziata dal Battesimo.

  • La salvezza spirituale.

Il sacramento inoltre apporta la salvezza spirituale, come la liberazione dell’uomo intero: sia dai mali fisici che spirituali. Esso mira sia alla guarigione corporale, se ciò giova alla salvezza spirituale (CCC1532).

 

 Conclusione.

Il sacramento dell’unzione degli infermi mostra che la Chiesa continua la stessa missione e compassione del suo Fondatore e degli Apostoli nei confronti di malati di ogni tipo di infermità; non solo nel momento ultimo della vita, nella preparazione quindi alla morte, ma in ogni circostanza dell’esistenza: quando la vita stessa della persona ammalata si trova in pericolo.

La guarigione che il Signore continua ad operare attaverso l’azione della Chiesa, in particolare dei suoi ministri sacri, mostrano continuamente che “Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 7,16) e che il Suo Regno è già in mezzo ad esso, in mezzo all’umanità di oggi e la malattia e la sofferenza, vissuti nella fede, ne diventano il luogo privilegiato della manifestazione della liberazione dal male e dal peccato e il dono della salvezza.

Infine la Chiesa, attraverso l’amministrazione del sacramento dell’unzione, mediante il quale si chiede a Dio la guarigione dell’ammalato, invita “a trovare la guarigione più radicale, ossia la vittoria sul peccato e sulla morte attraverso la Pasqua”[57] di Gesù Cristo.

 

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[1] Dai numeri 1499 ai numeri 1532 del catechismo della chiesa vi è esposta la dottrina sul sacramento.

[2] Cf. Es 15,26.

[3] Cf. 1 Sam 16,14; 2 Re 5,27; 20,1-11; 1 Mac 9,54-56; Is 38,1-20.

[4] M. Florio, S. Nkindji, G. Cavalli, R. Gerardi, Sacramentaria Speciale II, Penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio, EDB, pag. 146.

[5] Idem. 147.

[6] Idem. 148.

[7] Cf. Es 7,11ss; Nm 11,1ss.

[8] Cf. Ger 8,18.21; 11,19; 15,18.

[9] M. Florio, S. Nkindji, G. Cavalli, R. Gerardi, Sacramentaria Speciale II, Penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio, EDB, pag. 154.

[10] Dizionario di Pastorale Vocazionale, a cura del Centro Internazionale Vocazionale Rogate, Ed. Rogate 2002, pag.882/b.

[11] Cfr. Idem. pag. 883/a.

[12] GS14.

[13]A cura di A. Montonati, Giovanni Paolo II, Parole sull’Uomo, Ed. Bur Saggi [2005], pag. 45.

[14] Cfr. Gn 1,26.

[15] Dizionario di Pastorale Vocazionale, a cura del Centro Internazionale Vocazionale Rogate, Ed. Rogate 2002, pag. 885/b.

[16] GS 22.

[17] Cfr. Dizionario di Pastorale Vocazionale, a cura del Centro Internazionale Vocazionale Rogate, Ed. Rogate 2002, pag. 887.

[18] Idem. pag. 888.

[19] Cfr. Idem. pag. 888.

[20] CCC 1738.

[21] Gn 17,17; Dt 7,17.

[22] Nuovo Dizionario di Spiritualità, a cura di S. De Fiores e T. Goffi, San Paolo, 1985, pag. 1097/b.

[23] C. M. Martini, Sul Corpo, Ed. Centro Ambrosiano 2000, pag. 35.

[24] Idem. pag. 37.

[25] Idem. pag. 37.

[26] Idem. pag. 37-38.

[27] Idem. pag. 75-76.

[28] Cfr. Idem. pag. 76.

[29] Cfr. Gv 1,14.

[30] A cura di A. Montonati, Giovanni Paolo II, Parole sull’uomo, Ed. Bur Saggi [2005], pag. 123-124.

[31] Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Marietti 2001, pag. 630/b.

[32] CCC 1500.

[33] CCC 1501.

[34] CCC 1502.

[35] Fondatore della Comunità monastica di Bose, a Magnano (Biella)

[36] E. Bianchi, Le parole della spiritualità, per un lessico della vita interiore, Ed. Rizzoli 1999, pag. 193.

[37] A cura di A. Montonati, Giovanni Paolo II, Parole sull’uomo, Ed. Bur Saggi [2005], pag. 141.

[38] Giovanni Paolo II, lettera apostolica Salvifici Doloris, n. 26.

[39] Mt 27,46.

[40] Fondatrice del Movimento dei Focolari (1920-2007).

[41] C. Lubich, La dottrina spirituale, Ed. Mondadori 2001, pag. 136-137.

[42] M. Florio, S. Nkindji, G. Cavalli, R. Gerardi, Sacramentaria Speciale II, Penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio, EDB, pag. 170.

[43] Idem. 177.

[44] Cf. Idem. 180.

[45] https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2020/01/11/news/ogni-giorno-30mila-italiani-vanno-dai-maghi-1.38316607/

[46] Si veda il documento della Congregazione della Dottrina della Fede, Ardens felicitates. Istruzione circa le preghiere per ottenere da Dio la guarigione (14.09.2000).

[47] M. Florio, S. Nkindji, G. Cavalli, R. Gerardi, Sacramentaria Speciale II, Penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio, EDB, pag. 199.

[48] Idem. 157.

[49] Cf. Idem. 159.

[50] Papa Paolo VI nella sua costituzione apostolica Sacram Unctionem Infirmorum afferma che per ragione culturali e pastorali, dovute alle difficoltà di procurarsi l’olio d’oliva, è possibile usare altri tipi di oli ma che siano vegetali.

[51] Nel caso in cui non si possono ungere le mani e la fronte a casua della malattia, il ministro può ungere un’altra parte del corpo dell’ammalato.

[52] Papa Paolo VI, Sacram Unctionem Infirmorum, 1972, in: ASS 65 (1973), 5-9; N 9 (1973), 52-53.

[53] Cf. M. Florio, S. Nkindji, G. Cavalli, R. Gerardi, Sacramentaria Speciale II, Penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio, EDB, pag. 183.

[54] CCC 1517.

[55] M. Florio, S. Nkindji, G. Cavalli, R. Gerardi, Sacramentaria Speciale II, Penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio, EDB, pag. 157.

[56] Per un maggior approfondimento: Chiara Lubich, il grido, Città Nuova Editrice, 2002.

[57] CCC 1505.

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